Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro della plastica.

Parafrasando ironicamente Marx, la si potrebbe mettere tranquillamente così: la plastica, un tempo materiale utilizzato (fin troppo) da tutti, diventa oggi, improvvisamente, il grande demone di cui liberarsi ad ogni costo.

È sempre molto interessante valutare come cambiano velocemente le parole rispetto alla loro etimologia. Il termine plastica infatti deriva dal latino plastĭca e dal greco plastikḗ (tékhnē) e significa ‘arte che riguarda il modellare’.

E di certo è sicuramente quello il concetto chiave: qualcosa che si può modellare, con caratteristiche, appunto, plastiche.

Come si è arrivati ad una totale ed indifferenziata demonizzazione di questo materiale e della parola stessa?

Mi pongo questa domanda dopo aver constatato questa nuova concezione nel mio ambito lavorativo: i clienti sono sempre più restii all’utilizzo di tutti quei materiali che contengono al loro interno questo vocabolo. 

Che si tratti di bioplastica, cioè un tipo di plastica che può essere biodegradabile e bio-based, derivante solitamente da biomassa (amido di mais, tapioca, patate…) sembra non interessare granchè: solo per il semplice fatto di contenere dopo il prefisso bio il termine plastica, questi materiali vengono automaticamente esclusi a prescindere da molti consumatori, poiché nella loro concezione del termine non può esistere plastica non impattante a livello ecologico.

La coscienza ecologica sta sicuramente mutando in un’ampia fetta della popolazione; mi chiedo se lo stia facendo nel modo giusto: ci sono materiali (la plastica è effettivamente uno di questi) che potrebbero essere correttamente smaltiti senza troppe difficoltà, attuando semplicemente le buone pratiche di raccolta differenziata.

Com’è possibile che una parola tanto innocua abbia cambiato i suoi connotati linguistici diventando in poco tempo un termine quasi pericoloso?

È incredibile osservare le reazioni delle persone dopo averla pronunciata. L’equazione oramai si è trasformata in plastica = male assoluto.

Lavoro da moltissimo tempo con i materiali ed indubbiamente la plastica monouso ha portato ad uno squilibrio in termini ecologici che ha peggiorato molti ecosistemi, ma non dobbiamo pensare che sia soltanto sua la colpa.

Mi interrogo su come è cambiata la percezione di questo materiale in questi ultimi dieci anni e non comprendo appieno se sia una cosa buona oppure no. 

Ha senso fare informazione in questo modo? Ha senso confondere le parole, mettendo all’interno del “grande calderone” dei materiali “cattivi” tutti i materiali plastici?

Come affermato ad inizio articolo, inizialmente il termine veniva usato per descrivere quei materiali propensi ad una facile modellazione.

Come ci interfacceremo a questa parola nel futuro? Le possibilità sono molteplici: l’azione di lotta contro la plastica monouso in UE sta sicuramente facendo virare i consumatori verso altri materiali.

Lo trovo, personalmente, un delirio e una mancata opportunità di comunicazione: demonizzare per partito preso non è mai una buona idea, specie quando si lavora nel campo dell’innovazione. Capire invece che esistono vari tipi di plastica, osservarne le peculiarità, analizzare e premiare i meno impattanti porterebbe molti più frutti.

Ritorno alla domanda precedentemente posta: come sarà la nostra concezione futura del termine? Che cosa significherà, per i consumatori di domani, avere a che fare con un materiale plastico?

Sarà visto ancora come un demone o come un prezioso alleato?

Come si suole dire, ai posteri l’ardua sentenza.

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