Chi come me è nato e cresciuto negli anni ottanta e novanta sa, o almeno ricorda, com’erano gli oggetti e i prodotti di quel periodo: grandi, pesanti, ingombranti sono solo tre degli aggettivi che mi vengono in mente per riassumere brevemente alcune caratteristiche.

Non era concepito, o meglio, nemmeno ci si interessava alla sostenibilità di un prodotto, nè in termini di grandezza né in termini di pesantezza.

Siamo abituati a scorgere tra la gamma di oggetti di quei decenni oggetti grandi, pesanti, quasi fatti consapevolmente per il gusto di essere invadenti, onnipresenti, visibili all’occhio umano in ogni circostanza.

Abbiamo vissuto un periodo di grande benessere economico, forti del boom e della scoperta, in Italia e non solo, di tutto un mondo nuovo di accessori, gadget, contenitori e oggetti vari di cui non sapevamo nemmeno l’esistenza. 

Un’epoca nuova, quella del miracolo italiano, che comunicava con un linguaggio e un’estetica diversi.

Il mondo è cambiato e con esso l’industria e la produzione. 

In passato (forse) i prodotti industriali, o meglio, la loro forma e la loro connotazione fisica, dovevano rendere quel benessere tangibile, dovevano raccontare quella ricchezza. Pochi dunque erano i prodotti scarni, piccoli e leggeri che il mercato offriva e spesso, se non sempre, questi prodotti non venivano affatto presi in considerazione dai consumatori. Quell’idea estetica è stata ben radicata per molti decenni, creando di fatto due tipologie di oggetti: la prima, quella sopracitata, colma e strabordante, inconcepibile con l’idea asciutta dei prodotti che sarebbero diventati poi predominanti nel mercato attuale.

La seconda, appunto, ricca di merci poco appetibili all’epoca perché poco inclini a quell’ estetica e a quel gusto. 

Tuttavia i tempi evolvono e con loro anche le mode e le convinzioni: e allora ecco, nell’immaginario collettivo di chi produce, un nuovo modo di intendere il design e la forma di un oggetto. Abbandonate dunque le esigenze di creare prodotti voluminosi e invadenti allo sguardo, ci si è concentrati sul progettare oggetti scarni ad ogni inutile orpello aggiuntivo.

Ne è uscita una gamma di oggettistica che definirei minimalista per dimensioni e per materiali utilizzati. E qui, in questo nuovo stile, noi cogliamo un paradosso bizzarro e per certi versi curioso: anche negli anni ‘80 c’era chi, anche “pionieristicamente”, produceva così, non venendo tuttavia premiato dal mercato.

Oggi invece coloro che hanno continuato su questa via, magari innovando pochissimo ma continuando a produrre di fatto prodotti molto poveri (il termine non è dispregiativo ma serve a rendere l’idea) è visto come virtuoso, innovativo, acuto.

Mentre invece di fatto è rimasto dov’era.

Non è una critica, ma la sottolineatura che esiste un paradosso sostenibile che ha invertito la rotta, premiando produttori magari meno visionari rispetto ad altri sempre in movimento di idee e progetti.

Chi ha prodotto con costanza beni per lo più basici, senza particolare invettiva, oggi viene considerato virtuoso. Non è un male, per carità. Fa tuttavia sorridere questo cambio di paradigma estetico repentino: ora tutto deve essere asciutto, sostenibilissimo, quasi privo di accessori. La bellezza, ovviamente, sta sempre nel mezzo: bello e sostenibile, attento all’ambiente senza essere scarno. Queste dovrebbero essere le peculiarità di un prodotto contemporaneo.

Gli uomini sono figli dei loro tempi più che dei loro padri, affermava Marc Bloch.

La ritengo una verità indiscutibile che sintetizza perfettamente questo paradosso nel quale siamo immersi da quasi quindici anni.

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